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INTERVISTA – “Sacro niente” di Bitetto al Salone del Libro: “la letteratura non è rifugio, ma luogo dello scontro”

Lo scrittore Giovanni Bitetto, ha pubblicato di recente con la casa editrice Voland il suo secondo romanzo dal titolo “Sacro niente”. Un testo che vuole indagare e probabilmente far riflettere sulla natura umana e, in particolar modo, sulle vite di uomini e di donne accomunati da sentimenti e pulsioni, che mirano a svelare il senso dell’esistenza stessa.

Attraverso scene quotidiane intrise di atti di fede e religiosità cristiana, i protagonisti di “Sacro niente” rivolgono i propri occhi e il proprio cuore alla statua di Padre Pio.

Il santo, all’interno del romanzo, si fa portavoce per ognuno dei credenti, restando immobile – quale blocco di marmo – di fronte a chi gli chiede la “grazia” o a lui confessa i propri dolori, disgrazie e peccati. Un elemento protagonista che non giudica e non assolve, ma ascolta silente le storie che gli vengono affidate.

Un affascinante affresco del meridione dimenticato da tutti tranne che da Dio, quello descritto da Bitetto, dove i punti cardine della vita tra morte, lutto e amore si intrecciano e propongono al lettore personaggi ordinari, ma universali caratterizzati dal “Sacro niente” delle loro vite.

L’APPUNTAMENTO – Giovanni Bitetto domani, sabato 20 maggio, sarà presente al Salone del Libro di Torino alle ore 12,45 presso la Sala Avorio, Galleria Visitatori per parlare e presentare al pubblico “Sacro Niente, ma intanto, la nostra redazione ha avuto modo di colloquiare con l’autore e rivolgergli alcune domande sulla sua ultima opera.
INTERVISTA ALL’AUTORE

La parola “Sacro” contenuta nel titolo è, a quanto pare, il cardine che unisce la storia ai suoi personaggi. La maggior parte delle arti, da quelle visive a quelle musicali passando per la letteratura, concordano nel considerare il Sud come un luogo ricco di tradizioni, legato alle radici più profonde che spesso sfociano nel sacro, ma che non disdegnano il profano. Nel suo libro, per quanto la sacralità appaia come una costante, c’è qualcosa nel “niente” che svela un volto più umano e meno divino?

«Il titolo “Sacro niente” rimanda più che altro alla nostra esistenza, non perché la nostra vita non abbia senso ma perché, proprio in quanto esseri dotati di coscienza, siamo noi stessi a scegliere quale orizzonte perseguire. É la sacralità delle nostre scelte (intesa come irrevocabilità del nostro agire nel mondo, insomma la nostra impronta nel reale) a riempire il nulla, la tabula rasa che l’esistenza ci predispone alla nascita.»

Il filosofico J.P. Sartre, che qualcuno ha definito un ateo ossessionato da Dio nel suo libro autobiografico Les Mots, ha raccontato dei discorsi letterari e religiosi del nonno, che viene descritto quasi come una maschera comica del Dio Padre, per la sua caratteristica barba lunga e bianca. In “Sacro niente” c’è forse la volontà di mettere a nudo la debolezza umana e con lei la “comicità”, quasi satirica, del rivolgersi a Dio?

«Il tema della fede mi affascina per un duplice aspetto: da una parte la ritualità, in cui permane immutata una potenza estetica millenaria, produttrice di un patrimonio simbolico in grado di divenire alfabeto di senso per milioni di persone, d’altronde è ciò che avviene nel mio Sud in cui certi diorami simbolici sembrano concretizzarsi con una potenza che prescinde la dimensione interiore; dall’altra la capacità della fede di imporsi come orizzonte di senso univoco, in questo mondo che non crede più a niente credere a un patrimonio valoriale ben preciso sembra un’azione nobile e donchisciottesca al tempo stesso, ho cercato di mettere in scena questa ambivalenza fra comico e tragico.»

E’ credente e, se sì, in che misura?

«No, assolutamente. La mia prospettiva è totalmente materialista. La scelta della statua di Padre Pio richiama proprio questo aspetto. Nel romanzo la statua ha una corporeità propria, una coscienza materiale che precede la forma di santo donata da mano umana. Quindi la statua è capace di riflettere sul significato che i fedeli venuti da lei a confessarsi le danno in quanto icona religiosa, e quindi in quanto, a seconda della sensibilità del questuante, scrigno di segreti, desideri, rimpianti, paure o addirittura, in certi casi, nemico da abbattere. La statua ha percezione della propria natura ed è scollata dal ruolo di icona, questa lente permette alla voce narrante un’analisi più fredda.»

Secondo il sociologo Durkheim: “Il sacro è ciò che occupa un posto a parte, ciò che è separato, caratterizzato dall’impossibilità di mescolarsi al profano senza cessare di essere se stesso“. Nello scrivere “Sacro niente” e raccontando le vite dei suoi protagonisti ha forse voluto donare al lettore un luogo separato dove rifugiarsi?

«Per me la letteratura non è un rifugio, ma è il luogo dello scontro. Nelle maschere di cui narro il lettore può rivedere degli aspetti del proprio io, per fare i conti con la propria morale e mettere in dubbio la propria etica. Ho cercato di costruire degli scenari limite in cui, postulando un certo patrimonio valoriale, i personaggi si muovessero e agissero di conseguenza. La statua non giudica mai, al massimo prova curiosità, è una sorta di sismografo che registra i marosi dell’anima di chi le si pone dinanzi. Così io da scrittore non giudico i miei personaggi, ma è il lettore a farlo, e per farlo deve andare loro incontro. In poche parole più che creare un rifugio cerco di stanare il lettore del proprio.»

Padre Pio è da sempre una figura molto vicina al popolo e alla religiosità contemporanea. E’, infatti, uno dei santi più invocati e di cui si ha maggiore devozione. Perché ha scelto di inserire proprio lui nella sua trama?

«Proprio in quanto figura popolare vive una doppia natura: è oggetto di idolatria da una parte, è fenomeno kitsch dall’altra. La statua a cui votarsi è solo un espediente narrativo per dar modo ai personaggi di sbottonarsi, e alla voce narrante di raccogliere le loro confessioni. Queste maschere, prese dai propri rovelli, avrebbero potuto confessarsi con il medesimo ardore a una statua di Papa Wojtyla, di Garibaldi o di Maradona.»

Quando ha scritto questo romanzo a quale lettore pensava di destinare l’opera?

«Non penso mai a nessun lettore che non sia io stesso. Anzi, una versione adolescente di me che venga salvata dalla letteratura come io credo di essere stato, o mi sono illuso di esserlo. Per anni, più che cercare risposte, sulla pagina ho visto formarsi domande, domande a cui tutt’ora cerco di dare una risposta, conscio che la ricerca sarà sempre insoluta, ma che il processo genererà i frutti dell’esperienza. Spero di instillare il dubbio anche nel mio lettore, spingerlo a muovere il primo passo verso il proprio orizzonte.»

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