HOMETEATRO

Rainbow: la guerra raccontata dalle storie di vita con forza e umanità

Rainbow lo spettacolo scritto e diretto da Francesco Rivieccio con la co – regia di Shanti Tammaro catapulta lo spettatore nell’universo di una guerra solo apparentemente lontana, ma che in realtà ci appartiene prima ancora di esserne consapevoli.

È con questo vivido e intenso monologo – che in realtà si affolla di numerose anime, tutte con una precisa connotazione –  che il teatro Serra sceglie di chiudere la sua stagione, avendo assistito e reso possibile anche la sua genesi attraverso il Premio Serra.

Al centro vi sono i conflitti di ieri e di oggi, che dilaniano varie parti del mondo, che sembrano non appartenerci fin quando non ci toccano più da vicino, come è capitato ai ragazzi di questo monologo, amici che si sono trovati sbalzati da un campo di pallone a uno di guerra. Da un campo di guerra a uno di prigionia. Da una fabbrica a una fattoria, fino a una foresta piena di neve gelata.

Francesco riesce a raccogliere e a esprimere un’eredita pesante, che è insieme portato familiare e collettivo. Lui stesso è spettatore dei racconti del nonno, ma riesce a renderli familiari e vicini, incarnandoli con un linguaggio semplice e quotidiano, fino a farci rendere conto che noi condividiamo le stesse microstorie prima ancora di incontrarci, senza neanche saperlo.
Microstorie che hanno costruito la macrostoria, a volte confermandola, altre volte smentendola. Nell’antefatto, incontriamo Francesco junior che, grazie a suo nonno, impara a pescare.

Ma a lui non interessano gli ami e le esche, bensì le storie che galleggiano sul pelo dell’acqua, impresse sulla fiancata di una barca. ‘O Marchese, Filomena, Sofia, Carolina. Frammenti di vita, amore, sofferenze.

Da questa storia di oggi emerge una storia di ieri: di chi si è trovato da essere un ragazzo, aspirante elettricista, a diventare un uomo, cresciuto anzitempo, che costruisce binari, destinati a sorreggere il peso e a guidare la corsa di treni che deportano altri esseri umani verso la disperazione, il lavoro duro, la malattia, la separazione, la morte. Accerchiato da nemici nei cui occhi riconosce la radice di una comune umanità, manifestata nel conservare un piatto di bucce di patate di carote in più, che aiuti a reggere la fatica e la fame.

Ritrova, in mezzo alla crudezza e alla spietatezza della realtà circostante, che si è disumanizzata, un’insperata stilla di bellezza condivisa e la possibilità improvvisa, così come lo è l’apparire dell’arcobaleno, di ascoltare da bocche altrui – di altri luoghi e condizioni sociali – il passato per immaginare il futuro.

Francesco Rivieccio riesce, ricorrendo a pochi semplici oggetti scenici, a trasmettere ogni cosa e a farne riconoscere l’importanza.
In questa narrazione un pallone diventa una palla di cannone e poi si trasforma nella testa di una bambina.

Un corpicino che si cerca di proteggere nel momento peculiare in cui un’estranea diventa una persona cara al pari della propria famiglia, perchè si è uniti da un comune destino e da un desiderio di salvezza simile. Una maglietta lacera, quasi a brandelli, diventa uno scudo contro il freddo, quasi che quegli strappi fossero frutto di frustate che hanno portato con sé brandelli di speranza e di vita, lasciando esposta la pelle viva: quella marchiata dalla paura e dalla fragilità.

La storia raccontata da Francesco ci accomuna e ci unisce perchè la guerra in fondo non finisce mai. È come un cane da caccia che ti si attacca alle calcagna

È un loop traumatico impossile da dimenticare,  che si riverbera in quei 3 km percorsi andata e ritorno nel gelo; in quella guerra subita e non condivisa, in cui si è soldati incolpevoli, non certo decisori. Nella conta dei compagni persi. Negli amori adolescenziali destinati a non essere vissuti. È qualcosa che se non lo riesci a superare ti consuma e ti trasforma agli occhi di tutti in uno scemo di guerra, solo perchè hai una coscienza e una sensibilità forse più avvertita, un’anima più esposta, che non riesce ad andare avanti facendo finta di niente.

La storia raccontata da Francesco e quella delle guerre di ieri e di oggi perchè non è vero che la storia si ripete. È solo che la guerra non finisce mai e gli uomini, quando dimenticano, hanno la memoria troppo corta, come ribadisce lui.

L’INTERVISTA

D. Qual è il ruolo delle storie di vita e quale rapporto instaurano tra osservastori e osservati, tra attore e pubblico?

Nel caso di “Rainbow” il primo osservatore sono stato proprio io che ho ascoltato questa storia da mio nonno e da mio padre. In quanto autore del testo, quindi, ho cercato di mantenere quel linguaggio crudo e “reale” che avvicina ancora di più la vicenda al pubblico. Soprattutto questa vicenda che, come tutte le storie di guerra, ci sembra sempre lontana. Essendo stato quindi io per primo “pubblico” di questi racconti ho sentito l’esigenza di raccontarli anche agli altri, la necessità di rendere comunitari questi episodi di vita, purtroppo, vera.

D. E’ possibile rendere una storia apparentemente lontana improvvisamente vicina, superando un possibile sentimento di estraneità e di chiusura respingente?

R. Mantenendo la drammaturgia non troppo diversa da un racconto che un nonno può fare a suo nipote, ho cercato i punti di contatto con quello che al pubblico potesse interessare. La grande difficoltà è stata quella di dover racchiudere cinque anni di guerra e di vita in un’ora di spettacolo. E l’unica cosa che mi ha potuto aiutare è stata dare libero sfogo a questo flusso di ricordi.

Ho scelto così un taglio interpretativo che mantenesse una realtà, una naturalezza anche nel raccontare aneddoti molto “importanti” per avvicinarli maggiormente a chi li vede e li ascolta. La recitazione che cerco di adottare è molto semplice e “quotidiana” e in questo, credo, che si trovi la sua forza. Una quotidianità vissuta che diventa così vicina e reale che risulta poetica ma al tempo stesso nuda e cruda. Anche nella regia ho cercato di utilizzare meno “distrazioni” possibili per non distogliere il focus dal racconto orale. 

D. Siamo eredi di un passato individuale e collettivo, spesso greve. Siamo possibili custodi di memoria e memorie. Quanto è importante non dimenticare e sentirci uniti da una dimensione comune e condivisa attraverso lo spazio e il tempo?

R. Tramandare queste storie soggettive, credo sia importantissimo per aprire… Anzi per riaprire la memoria di  chi le ascolta. Come ho detto, sono storie che ci sembrano sempre lontane, guerre che non ci appartengono. Era così anche per mio nonno e per i giovani della sua generazione ma non lo è stato: si sono ritrovati a “combattere” con cose molto più grandi di loro, a crescere in fretta, a scoprirsi uomini quando di umano, attorno, non c’era quasi nulla. E non è una storia molto lontana da noi, considerando che è successa solo ottanta anni fa e non è lontana da ciò che ancora oggi sta succedendo in tante parti del mondo. Recuperare queste storie singole ci aiuta a capire chi siamo stati e a riflettere sul fatto che, forse, non è la storia che si ripete, siamo noi uomini che dimentichiamo un po’ troppo in fretta.

Ph. Giuseppe Iazzolino

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