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Una storia gotica: i mostri interiori diventano tangibili

Una diciottenne con le possibilità di studiare, di crescere, di realizzarsi lavorativamente, anche se tra mille ostacoli ancora presenti, propri di un mondo e di una donna contemporanei. Ma con una saggezza antica e con una capacità di analisi che sa soprendere. La stessa saggezza dei vampiri millennari di cui scrive Anne Rice. Esseri senza tempo come Pandora e Marius. E’ Chiara Galiffa, autrice di Una storia Gotica edita dalla Mauna Loa.

Per Chiara il genere gotico è un modo per parlare dei mostri, dei dilanianti demoni interiori, individuali e collettivi, e di quelli che si aggirano tra le trame fitte della realtà sociale, dando all’inintellegibilità che alberga in entrambi i mondi un modo per avere un volto e una collocazione, una materialità ed individuabilità.

Ma è anche un modo per andare, con acutezza e tenacia, in fondo alle cose, scardinando lo status quo e il già noto, sondando la distanza tra il mondo della norma, di ciò che è già deciso, certo e conosciuto e quello più fluido del paranormale, dove pirandellinamente si possono incontrare presenze meno reali ma più vere.

I protagonisti della sua storia sono vittime di un rapporto morboso, un laccio che stringe e costringe e come un morbo infetta e fa ammalare anima e corpo, in una spirale delirante.

Ora passiamo la parola a Chiara.

D.  Cosa ti affascina nascosto nel buio, nella cupezza delle atmosfere gotiche?

R. Quando penso al gotico ed alla cupezza delle sue atmosfere non ho in mente qualcosa di definito, ma un insieme di ombre e contorni sfumati, in cui si perde il confine tra quello che è comprensibile e quello che sfugge alla ragione. Eppure, nonostante il misterioso velo che avvolge le tematiche gotiche ed il relativo mondo, vi associo un senso di profonda sicurezza. È una sorta di porto sicuro petrarchesco. Approcciarsi al mondo del buio, almeno per me, significa intraprendere un percorso di smarrimento edificante, in cui il non capire si trasforma in formazione di sé. L’incertezza del soprannaturale si trasmuta in un ideale e metaforico luogo da raggiungere per sfuggire alla realtà di tutti i giorni, spesso asfissiante nel suo estremo materialismo. Il gotico è quello spiraglio di irrazionale di cui tutti, almeno una volta, hanno sentito il bisogno.

D. Incubi e deliri direbbe King. Demoni esterni ed interiori. In che modo il soprannaturale ci parla di mostri reali?

R. Citando Elbert Hubbard, “Il Soprannaturale è il naturale non ancora compreso”. Queste parole non falliscono mai nel richiamarmi alla memoria quel valore dai connotati didattici che mi piace attribuire al mondo del mistero. Spesso il soprannaturale non è altro che lo specchio di quello che ci fa paura nella dimensione tangibile, seppure sotto altre vesti. Inoltre, credo che abbandonarsi all’inintelligibile ed ai “mostri” immateriali sia un mezzo per smascherare altri mostri, del tutto reali, quali la pesantezza e la   soffocante aridità materialistica della realtà.

Io credo che al mondo esista molto più di quello che riusciamo a vedere e capire, e pensarci, ogni tanto, ridimensiona il nostro ego. Ci sono realtà che ci sfuggono, che non riusciamo e mai riusciremo a dominare, e credo sia profondamente paideutico-terapeutico per l’essere umano non dimenticarlo.

D. Cos’è il soprannaturale per te?

Riagganciandomi alla risposta precedente, credo che il soprannaturale sia qualcosa di indispensabile per l’essere umano, in quanto, senza il mistero e l’intangibilità dell’altro mondo, egli si trasforma di fatto in un automa, una macchina. Il soprannaturale fa parte dell’esperienza che siamo chiamati a vivere sulla terra e credo che sia necessario accettarlo. Mi piace paragonare l’approccio al soprannaturale ad una sorta di percorso spirituale, una specie di illuminazione che non può che renderci completi, rendendoci capaci di oltrepassare la superficie materiale della dimensione in cui viviamo.

D. I Greci quando volevano sollevare il velo e parlare di un argomento delicato lo trasponevano lontano nello spazio e nel tempo. Allo stesso modo, l’800 e la nostra contemporaneità dialogano nel tuo scritto. Perché questo dialogo ti affascina?

R. L’età vittoriana è un’età di profonda ipocrisia, in cui dietro ad una dorata superficie di corretta moralità si cela grande contraddittorietà. È un continuo contrapporsi di bene e male, in cui l’apparenza gioca un ruolo fondamentale. È anche un periodo di forti restrizioni, limitazioni, imposizioni soffocanti, in cui il codice morale e comportamentale imprigiona gli individui e ne condiziona l’esistenza. In sintesi, definirei l’età vittoriana come un periodo di oppressione. E l’oppressione è qualcosa che, almeno secondo me, caratterizza in maniera spiccata anche il presente: il perbenismo e l’atteggiamento di spregiudicata condanna verso determinati valori, che la collettività ritiene ormai debellato, è in realtà ancora profondamente radicato in noi. Il voler necessariamente tracciare un confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (ed il rinnegare l’idea di una realtà in cui bene e male fanno parte di una coppia che non può essere scissa) non può che farci sprofondare in uno stato di profonda angoscia, in cui la libertà è solo apparente.

D. Servo e padrona. Potrebbero siglare il gemellaggio virtuoso in nome della libertà d’essere e di sentire. Ma l’uno, a sorpresa, richiama all’ordine l’altra, in maniera alienata e parossistica. Perché?

R. La coppia di George e Meredith non è altro che una trasposizione nella finzione narrativa della coppia bene-male, una coppia necessariamente unita, il cui tentativo di scissione non può che portare all’oblio (nella storia, la morte di uno dei due protagonisti).

George, infastidito dalla stravaganza di Meredith, impone alla sua padrona i suoi schemi, rigidi ed inamovibili, cercando di farle perseguire la strada di quello che è moralmente corretto (e al contempo scorretto). E ciò accade perché la luce, nella presunzione di essere sola e pura luce, finisce per trasformarsi in oscurità, la quale pratica necessariamente violenza sul diverso.

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