Il ritratto di Dorian Gray: al Castello Lancellotti di Lauro una storia senza tempo
Ci sono alcuni temi senza tempo e trasversali allo spazio che costituiscono una sorta di invarianti universali.
Una di queste storie è Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, rappresentato nella cornice magica e appropriatissima del Castello Lancellotti di Lauro.
I due cantastorie – in seguito dei ex machina – che introducono lo spettacolo ci ricordano che non esistono libri morali o immorali, anche se l’idea pruriginosa di assistere a una rappresentazione immorale può stuzzicare la curiosità dei potenziali spettatori, ma è possibile leggere opere significative o meno, perché scritte bene o, invece, male.
La compagnia Controtempo Theatre si misura con questa sfida, con la regia di Lilith Petillo. Sul palco, assieme a lei, Venanzio Amoroso, Danilo Franti, Matteo Pantani, Filippo Salvini.
La compagnia riesce a realizzare un delicato equilibrio tra la fedeltà all’originale e alcune trovate sceniche innovative che conferiscono ritmo al racconto e corposità all’adattamento.
Il padre putativo di Dorian è Lord Henry. Ma è anche il Faust con cui lui stringe un patto di sangue e di anima. È lui che fa assaporare a Dorian il gusto agrodolce del potere conferito dalla giovinezza, ma anche il rimpianto in germe per la sua caducità.
È lui che gli mostra il varco verso una vita di dissolutezza, dove prendere in giro i sentimenti e le fragilità altrui. Ed è così che Dorian idealizza la bellezza apparentemente distante di Sybil, che lui narcisisticamente è riuscito a carpire, ma la umilia quando lei gli confessa il suo amore totalizzante e puro.
Ugualmente, si prende gioco delle emozioni di Basil, il suo migliore amico. Basil gli confessa i suoi sentimenti più reconditi, ma contemporaneamente gli si offre come vittima sacrificale. Dorian lo rende apparentemente e fraudolentemente suo confidente, nonchè testimone dei suoi misfatti, per sconvolgergli la mente e poi ucciderlo.
Un fascio di luce, mentre Basil apre il suo cuore all’amato, paradossalmente non illumina lui, ma è puntato su Dorian, ad indicare che il vero protagonista rimane lui, che egoicamente si bea dei tormenti dell’amico, sentendosi al centro del suo universo emotivo, sadicamente soddisfatto di procurargli dolore e lacerazioni psicologiche.
Le musiche in crescendo sottolineano la tensione dell’azione scenica e anche una sorta di sacralità violata.
Il disegno luci alterna l’utilizzo di fari che proiettano nell’ambiente un rossore acceso – che anticipa lo spargimento di sangue innocente e conduce lo spettatore negli anfratti della coscienza di Dorian e al di là delle apparenze, instaurando un parallelismo tra il dentro e il fuori – a lampi psichedelici e fluo.
Un improvviso buio segna non solo il cambio di scena con improvvise cesure e brusche interruzioni, ma anche la progressiva e inesorabile discesa agli inferi di colui che prima era candido e conferiscono all’azione un particolare pathos e un veritiero spessore. L’atmosfera è reale nella sua surrealtà.
Gli attori sono così calati dentro la pelle dei personaggi da assorbirne in vivo le emozioni e da farle percepire al pubblico.
Gli occhi sono lucidi per la commozione o sgranati per il terrore e la disperazione.
Il climax dell’azione scenica raggiunge l’apice durante la fase finale, quando Dorian, abbandonato da tutti, anche da lord Henry, perché ha dimostrato di essere a sua volta fragile e plebeo, cedendo alle lusinghe dell’omicidio, viene assalito dai rimorsi e dal ricordo di coloro che ha usato come pedine e rinnegato e decide di uccidersi.
L’ordine naturale delle cose, tra nemesi e giustizia, è ristabilito.
Foto di Cristiana Carotenuto

