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Colpita San Pietroburgo, l’omaggio di Putin alle persone scomparse

Dopo Bruxelles, Parigi e in ultima istanza Londra, adesso è toccato alla Russia finire nel mirino del terrorismo. San Pietroburgo, la città sovietica che più si avvicina per canoni e legami con l’Occidente, infatti, nella giornata di lunedi 3 aprile ha contato 14 vittime e oltre 40 feriti in seguito ad una esplosione di matrice islamica avvenuta in un vagone della linea blu della metro, tra la fermata di Shennaya Ploshad e Technology Institute (traslitterate dal cirillico).

L’ordigno responsabile della strage era costituito da circa 300 grammi di tritolo, era contenuto in uno zainetto, ed era pieno di elementi lesivi come sfere d’acciaio, dadi da bullone, chiodi, schegge e proiettili. Un ordigno inesploso, inoltre, è stato poi rinvenuto in un’altra stazione della metro di San Pietroburgo, quella di Ploshchad Vosstaniya. L’ordigno aveva una potenza pari a un chilo di tritolo, anch’esso conteneva elementi lesivi, ma è stato è stato individuato e disinnescato dagli artificieri che hanno evitato una strage forse anche peggiore.

Il nome dell’attentatore (poi morto in seguito all’esplosione) è quello di Akbarzhon Jalilov, un ragazzo di 22 anni di origine russa ma nato ad Osh, nel Kirghizistan. Jalilov viveva a San Pietroburgo da molti anni, aveva sei passaporti di cui uno valido per l’espatrio e lavorava come meccanico in un’autofficina. Aveva legami con la Siria. Il Kirghizistan è una delle ex repubbliche sovietiche di provenienza di molti foreign fighter andati a combattere in Siria sul fronte dell’Isis, e nelle ultime ore gli investigatori stanno controllando la posizione di due possibili complici, un ragazzo e una ragazza, provenienti sempre dell’Asia Centrale.

Mentre ara in atto l’idea dell’attentato, il Presidente Putin era in città per incontrato il suo collega bielorusso Lukašenko, ed una volta appresa la triste notizia non ha rilasciato dichiarazioni ma ha portato un mazzo di rose rosse alla stazione metropolitana di Technology Institute. Continua, quindi, la guerra dell’ISIS che colpisce, in modo indiscriminato, civili e bambini, in nome di un Dio che – a loro dire- è mandante di morte e distruzione.

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