HOMETEATRO

Nozze di sangue: quando le regole imposte privano dell’identità

Nozze di sangue è il primo capitolo della trilogia rurale che Federico Garcia Lorca dedica all’amore e a un inno contro la tirannia, che si concluderà con La casa di Bernarda Alba.
 
La storia è ambientata nella società rurale pre-franchista ed è ispirato a un fatto di cronaca avvenuto nel 1928.
 
Lorca, però, sposta le lancette leggermente in avanti, intorno al 1932-33, a un soffio dall’affermarsi dal regime franchista nel 1936 e lo trasforma da un episodio tipico della società rurale a un monito per le coscienze, metafora della società stessa.
 
Tutti i personaggi sono ingabbiati in un rigido sistema di regole dettato dalla società della tribù o dell’onore come la definirebbe lo studioso Basanez, pervasa da quello che Banfield chiama familismo amorale.
 
“L’irreggimentamento dettato dalla società rurale andalusa è così forte e inesorabile – spiega il regista Gianmarco Cesario – che i personaggi non hanno un loro nome proprio, che li riporti a una specifica identità, ma sono identificati solo attraverso il ruolo che svolgono all’interno della famiglia”.
 
Tutto ruota attorno alla figura della Madre, che rappresenta il demiurgo di tutto, che plasma e pilota le vite degli altri fino all’estremo sacrificio del suo stesso sangue. Lei incarna il grande dittatore e proprio per questo il regista ha scelto di farla interpretare da un uomo, Pietro Juliano. Con lui sul palco Leonardo Di Costanzo, Guido Di Geronimo, Germana Di Marino.
 
La madre è una donna – non donna che rappresenta la personificazione del maschilismo più becero. Per lei una donna è tale solo se assolve al ruolo impostole dalla società: quello di far figli e di essere una donna pia, che non chiede nulla, perché sa cucirsi da sé una gonna e fare il pane in casa.
 
Lei da donna – fattrice è passata troppo presto a essere una vedova perché suo marito e suo figlio maggiore sono morti nella faida con la famiglia Felix.
 
Per poter sopravvivere fisicamente, ma soprattutto socialmente, in una società caratterizzata da regole tanto ferree quanto crudeli, lei ha scelto di ripudiare tutti gli attributi propri della femminilità, fino ad annullarli, ergendo davanti a sé un muro invalicabile, e si è profondamente mascolinizzata, inglobando in sé l’elemento maschile, tale da sostituire il marito coattivamente assente.
 
A contraddistinguerne la tipizzazione un coltello, nascosto sotto la gonna nera (i costumi sono di Melissa Di Vincenzo), e un rosario che porta sempre con sé e che rigira tra le mani. Il coltello è simbolo di una violenza che le fa paura, ma che lei non ripudia, perché riconosce essere l’unico linguaggio utile e davvero comprensibile e rispettato in una società primordiale. Il rosario, invece, indica una fede cieca nelle regole imposte, frutto di una morale capace di insterilire, e custode di un’onestà specchiata.
 
A essere contrapposte a lei due donne, non a caso cugine. La moglie di Leonardo e la promessa sposa del figlio. La prima ha accettato il suo destino di donna-fattrice e in un momento di forte pathos e disperazione ribadirà che, nonostante i reiterati tradimenti, rimarrà incardinata al suo posto, in quanto madre del primogenito di Leonardo e nutrice del bambino in arrivo. Non andrà via come ha fatto sua madre e non si farà spodestare. La futura sposa rappresenta, invece, una donna arsa, sterile, in profondo conflitto. Sa di avere le stesse capacità di un uomo ma, parimenti, non è un uomo e quindi la libertà di scelta non le è concessa e con essa una reale identità.
 
Vuole fuggire da una terra dura, arida, ostinatamente difficile e che dà poco frutto e, allo stesso tempo, da una vita destinata al confino casalingo che ha visto prima appassire e poi morire sua madre.
 
E lo fa scegliendo proprio il figlio della Madre, forse il personaggio più puro di tutti, che incarna i valori dell’amore, dell’abnegazione e della fiducia e che per lei inizialmente rappresenta per lei quella fonte d’acqua che, per quanto insufficiente rispetto ai suoi bisogni, è in grado di mantenerla in vita.
 
“La Madre – racconta il regista – non vorrebbe che il figlio  si sposasse perché equivarrebbe a separarsene, ma, in egual misura, sa che deve, per assumere pienamente il suo ruolo sociale ed essere rispettato”.
 
Suo figlio è un debole agli occhi della Madre e lei stessa dovrà formarlo ai comportamenti virili nei confronti della moglie, ricordandogli che spesso l’amore dovrà cedere il passo a un giogo, rappresentato da un abbraccio capace di far male e di soffocare, ma non tanto da alimentare un possibile istinto di ribellione e fuga.
 
Diverse sono le ragioni alla base del matrimonio per i due genitori. La Madre sa che nessuna donna per lei sarà mai all’altezza del figlio e allora l’una vale l’altra. Tanto più che ella spera in una progenie numerosa, composta sia da maschi sia da femmine, perché mentre gli uomini “voleranno via”, le femmine rimarremo a farle buona compagnia, dedite ai mestieri tipici femminili.
 
Il padre della sposa, invece, sembra essere mosso solo da interessi legati alla gerarchia economica, al soldo, al possesso.
 
Per lui il matrimonio della figlia equivale solo a un buon affare che costa poco – il prezzo della vita di una donna – e che gli permetterà, da una parte, di entrare in possesso di terre floride e ricche e, dall’altra, di avere braccia forti per coltivare una terra, la sua, riottosa e ingrata, ma che comunque, a costo di spaccar pietre e spaccarsi la schiena, deve fruttare qualcosa, in un costante processo di espansione e accumulazione capitalistica.
 
I due giovani, dunque, pur se animati da buoni sentimenti reciproci, si prestano a essere delle pedine in un gioco più grande di loro, in fondo sempre lo stesso. 
 
Ma in quest’ordine di simmetrie strutturali ben consolidate dall’odiosa prassi del “si è sempre fatto e vissuto così” si intromette un elemento di disturbo: Leonardo.
 
L’unico che, sottraendosi a un rigido sistema di regole, ha diritto a un nome e a un’identità.
 
Non sappiamo se si sia sposato per interesse o per pressioni cui non ha saputo reggere – il denaro e gli interessi c’entrano sempre, come ci ricorda il regista – ma continua a richiamare una ragnatela di colpe che lo ha inghiottito, dove l’una si inanella sull’altra, mordendo le terga dell’ultima.
 
Si giustifica Leonardo: dice che ha provato a gettarsi sabbia negli occhi per non vedere la bellezza della donna amata e a erigere trincee separatorie, ma il richiamo della passione e dell’amore per entrambi, nonostante i tentativi di difesa e di rimprovero dell’altro, sono stati più forti. Sono irresistibilmente attratti dall’altro, che riconoscono a occhi chiusi, anche solo dal profumo.
 
E’ il richiamo del sangue, che nel loro caso ribolle di passione. Per lo sposo il richiamo del sangue, dell’onta da lavare e dell’appartenenza a una genia, segna un inesorabile destino di vendetta e di morte condivisa.
 
Attorno ai protagonisti un coro di personaggi secondari, di compaesani, che Cesario rappresenta come presenze scure che si nascondono dietro a un ventaglio.
 
Sono loro che invidiano la felicità degli amanti, il loro essere l’uno accanto all’altra, di nuovo insieme, ma che, allo stesso tempo, inneggiano alla vendetta perché è meglio che il sangue defluisca dal corpo, imbevendo il terreno, anziché divenire sangue marcio. 
 
Persino la luna, interpretata dalla ballerina Adriana Napolitano, che danza su musiche di Pasquale Ruocco e su coreografie di Marco Guadagno, si rivela avversa alla felicità dei due amanti, perché se da una parte ne illumina il cammino durante la fuga dall’altra ne rivela il nascondiglio.
 
Alla fine, quando gli uomini sono ormai morti, le due donne si ritrovano fianco a fianco, incarnazioni dolenti di due pietà contrapposte.
 
La sposa invoca pietà. Per rientrare nei ranghi ed essere perdonata reca l’egida della sua virginea purezza.
 
Per lei sia morte o perdono e, se perdonata, le sia dato il permesso di piangere assieme.
 
Ma non vi è possibilità di reale dialogo tra le due donne. La madre, priva di empatia e di qualsivoglia sentimento, è sorda alle ragioni della passione e caccia la donna, invitandola a piangere fuori dalla sua casa. 
 
“Forse un barlume di sentimento – evidenzia Cesario – si intravede in lei solo quando realizza di aver perso tutto con il figlio”.
 
Ma subito questo fremito di nascente umanità e compassione viene soffocato dalla consapevolezza che finalmente potrà dormire sonni tranquilli, privi di preoccupazioni, perché ormai il destino di tutti è compiuto: la sua famiglia riposa sotto il grano rigoglioso, annaffiato dalla pioggia.
 
Il ciclo brutale di nascita e morte, all’insegna della difesa di ciò che è sempre stato, è compiuto. 
 
Appuntamenti

sabato 26 febbraio h 19,00

domenica 27 febbraio h 18,00

 

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