HOMETEATRO

Groppi d’amore nella scuraglia: al Tram una riflessione intensa, ironica, amara e poetica

Groppi d’amore nella scuraglia sarà nuovamente in scena al Teatro Tram stasera, domenica 5 febbraio, alle ore 18. In scena Silvio Barbiero. Con lui, alla regia, Marco Caldiron.
Si tratta del lavoro teatrale  tratto dall’omonimo libro scritto dal veneziano Tiziano Scarpa, edito da Einaudi.

La riduzione teatrale,  in quanto tale, non è priva di sapienti tagli e racconta, attraverso una lingua inventata, profondamente primitiva e, proprio per questo, viscerale, la storia di un immaginario paese del centro – Sud, dove il sindaco preso dalla sete di ricchezza e di potere, concorda con il ministro dell’igiene di seppellire nei campi di grano – i campi granori – cumuli di immondizia, trasformando un piccolo paese tranquillo in una discarica, il cosiddetto monnezzaro, tale da rendere la terra putrida e il vento pregno di un fetore “merdoso” .

Utilizzando un linguaggio apparentemente surreale e leggero, a tratti esilarante, che mischia vari idiomi del Sud, tra cui quello partenopeo e quello ciociaro, l’attore Silvio Barbiero – premiato per questa intensa interpretazione a perdifiato al Fringe Festival nel 2014 –  veste i panni e presta gesti e mimica al protagonista Scatorchio. eroe poetico e a volte grottesco. In questo modo, solleva il velo su temi ruvidi, altrimenti difficilmente affrontabili.


“Il mio è un personaggio insieme particolarmente poetico e malinconico – spiega Silvio –  ma che sa anche rivelarsi  ruvidamente volgare, come accade con l’episodio surreale del “gnogno”, il nonno, dell’asinella e della sua presunta paternità nei riguardi di un “impasto tra un essere umano e un asino”.


Questo spettacolo – secondo quanto evidenzia  Barbiero – ha ormai 11 anni e nel tempo si è evoluto assieme a lui. Ha assorbito i suoi umori e malumori perché un attore è come una botte, in cui un testo decanta, assimilando le cose belle e brutte che succedono nella sua vita.


” Sicuramente il mio Scatorchio di 11 anni fa – continua –  era molto più veemente”.


In questo spettacolo trovano posto temi importanti: un territorio che viene svenduto e martoriato in nome dei vantaggi reali conferiti a pochi e di presunti, ma inesistenti, benefici per la collettività, in questo caso un ripetitore montato sul campanile della chiesa.

Groppi, grumi neri e duri, di tristezza – generati da pensieri dolorosi o da grovigli annodati di lacrime non versate – che riescono a sciogliersi soltanto nell’oscurità o che l’oscurità nasconde.


Fantasmi che vagano nelle tenebre. Tormenti e desideri si mescolano, come per esempio quello di essere amati solo per quello che si è  e alla luce del sole.


Sirocchia alla fine sceglie Cicerchio, il grande antagonista che Scatorchio odia a tal punto da arrivare a tradire, per fargli dispetto, l’intero paese.

Lo fa non per un anelito politico simile, ma perché Cicerchio sa amarla manifestamente,  mentre Scatorchio riesce ad amarla soltanto nel ricordo o di nascosto e quando fa l’amore con lei vagheggia di altre sembianze immaginarie e immaginate.


Il vero amore per Scatorchio forse arriverà con l’entrata in scena di un altro personaggio Pruscilla. Anche lei si aggira tra la carne marcia e le verdure putride del monnezzaro, alla ricerca di un rimedio, di una pozione, che sciolga il doglio, il dolore, d’amore.

Pruscilla ha bisogno di seguire Scatorchio, di controllarlo, per comprendere come lui sia realmente, ma anche, in seguito,  di separarsene per capire se gli manchi e se lo ami davvero. L’amore di figlio di Scatorchio si esprime, invece, verso la vedova,  sola come lui e, al pari, tormentata dai fantasmi del doglio d’amore.


Per questo, come e piú di un figlio biologico, le rimane accanto e la nutre con un “cane canaglioso” e “topi pantecani” arrostiti, che assurgono a emblemi degli stati d’animo, dei vizi e delle virtú umani. Ma in questo spettacolo trova posto anche il dialogo con Gesù, prigioniero della sua croce. Una critica alle gerarchie ecclesiastiche e alla loro estenuante ricerca del potere, artefice  di interpretazioni spesso spurie degli scritti della tradizione religiosa.


Un monologo affidato alla forza di un linguaggio intenso, trasversalmente comprensibile grazie alla sua musicalità, che così palesa la sua potenziale universalità, travalicando i confini regionali e superando gli ostacoli della non comprensione linguistica.

“Può sembrare un linguaggio poco comprensibile – dice Barbiero -. Alla fine è  un gioco: basta affidarsi a esso, lasciandosi trasportare”.


Il tutto è accompagnato, in questo monologo poetico, aspro e faticoso, da una mimica e da una gestualità  potenti, che rendono quasi superfluo avere una scenografia e dei costumi di scena. 

Il prossimo appuntamento con Silvio Barbiero sarà tra circa un mese al teatro Elicantropo con la sua versione dell’Edipo. Passate parola almeno ad altre tre persone, affinché la cultura possa “dilagare”

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