HOMETEATRO

Come tu mi vuoi: Lucia Lavia dà vita a un personaggio disperatamente autentico

Come tu mi vuoi  di  Luigi Pirandello è andato in in scena fino a domenica 3 marzo per la regia di Luca De Fusco con Lucia Lavia, Francesco Biscione, Alessandra Pacifico, Paride Cicirello, Nicola Costa, Alessandro Balletta, Alessandra Costanzo, Bruno Torrisi, Pierluigi Corallo e Isabella Giacobbe.

Un’opera fulminante, arricchita da scelte registiche e scenografiche sapienti, dove ognuno – attori primari e compromari – serve a tessere l’ordito di una drammatica presa di consapevolezza, ancora più terribile nella sua sostanziale banalità.

Lucia Lavia conferma la sua luce di astro nascente e regge il nucleo fondante dell’impianto narrativo e interpretativo, dando le fattezze a Elma/Cia.

C’è in lei una dolente emotività ferita, profondamente meditativa, ma al contempo una fisicità prorompente, incarnata nelle movenze flessuose, nei dialoghi provocatori, che divengono dei veri e propri latrati idrofobi, carichi di una febbrile energia e di una disperata e schiumante rabbia, frutto di una crescente consapevolezza che non lascia scampo e spazio alla speranza.

Il suo carisma domina la scena. Le figure femminili che la circondano ne accrescono il fascino e contribuiscono a caricare l’atmosfera di pathos. Quelle maschili ruotano attorno a lei come falene, pronte a bruciarsi, o a passare inevitabilmente in secondo piano.

In questa narrazione, ritroviamo i temi più cari a Pirandello, resi in maniera ancora più esplicita e compiuta: l’identità che si frammenta in mille schegge, fino a dissolversi, pur di consentire all’individuo di conformarsi alle aspettative altrui, filtrate dalle regole sociali che assumono la rigidità e la costrittività di diktat.

L’individuo sceglie, o è costretto dalle circostanze, a indossare numerose maschere – per soddisfare il proprio bisogno di appartenenza o per interesse o, ancora, per riuscire a esprimere nascostamente i suoi istinti più bassi.

Quando incontriamo Elma, questo personaggio sembra risucchiato in un buco nero, in cui cerca di ottundere la coscienza e di tacitare il suo disagio esistenziale bevendo vino a profusione e passando da una festa all’altra. Parrebbe annullarsi, ma in realtà ricerca disperatamente un senso esistenziale, un barlume di autenticità, che, al contempo, rifugge spaventata.

L’artificio scenico è quello di frapporre tra la protagonista  e il pubblico uno schermo, su cui vengono riflesse le sue mille identità che si moltiplicano e frammentano.

Questa barriera – che divide la scena da quel retroscena, in cui si agitano moti interiori e identità camuffate –  non verrà mai eliminata, perchè ciò, anche a volerci provare, si rivelerebbe impossibile.

Poi arriva lui: un uomo che cerca la moglie scomparsa da dieci anni. E l’ignota deciderà di seguirlo nella disperata speranza – una tautologia stridente – di ritrovare un significato al suo esistere. Non per interesse, bensì per sentimento, quasi accecata dalla flebile luce che intravede.

C’è una frase topica in cui dice che vorrebbe essere solo un corpo – lei che si sente costantemente estranea a sè stessa, tanto è vero che la sua vera identità le è ormai ignota.

Vive in una sorta di stato sospeso, una narcolessia emotiva, in cui ha perso sè stessa. Non vorrebbe portare con sè il peso di ricordi sfibranti e di una vita pesantemente infelice. Vorrebbe solo donarsi a chi saprà amarla, restituendole una vita degna di questo nome, autentica. Questo non avviene: anzi dopo poco lei – che ha abbandonato le vesti di femme fatale per vestire quelli di una donna pura, per essere accettata da alcune persone e luoghi che potrà chiamare  e sentire legittimamente casa –  scopre che molte scelte sono fatte non per sentimento, bensì per interesse da chi credeva in buona fede .

La disperazione di Elma, che si è tacitata per quattro mesi, torna ad affacciarsi prepotentemente, perché lei si sente perseguitata da una vita inautentica, dall’essere costantemente esposta su un palcoscenico, vittima delle trame altrui.

A questo punto, deciderà di tornare alla sua vecchia eistenza, comunque più vera nella sua disperazione.

Il primigeneo cambio di pelle della protagonista è rappresentato dalla scelta di abbandonare un abito da sera nero e trasparente, per vestire i panni del candore, in nome della chimera di un amore e di un’esistenza puri, illuminati dalla speranza di una nuova possibilità.

Nel momento in cui dovrà essere mostrata ai parenti quale rediviva Cia, Elma si renderà conto, con orrore, che tutti recitano su un palcoscenico, consapevoli, in fondo, di essere protagonisti di un inganno ben orchestrato.

Ognuno vuole credere alla versione che gli viene proposta – benchè lei non porti prove tangibili e inconfutabili e, anzi, abbia gli occhi e la voce diversi da quelli della vera Cia, e non le rassomigli poi tanto neanche nell’aspetto.

L’inganno perpetrato sembra essere palese, proprio a causa del suo essere troppo impermeabile alle sofferenze, troppo cristallizzata e immune alla scure del tempo. Diverso è per la povera donna demente con cui il suo ex amante torna sulla scena che, pur essendo trasfigurata dalla barbarie che ha subito, non ha dimenticato i suoi affetti più profondi e ha continuato a cercarli a chiamarli. Quegli stessi affetti, o presunti tali, però, non vogliono riconoscerla e  la ripudiano – forse solo la zia ha un ripensamento e ne ha pietà – perché è un personaggio disturbante e scomodo, che mal si incasellerebbe nei loro piani.

Uno spettacolo che fluisce a ritmi alternati, immergendo lo spettatore in un’atmosfera claustrofobica e drammaticamente vera, in cui, in fondo, si è consapevoli di quello che accadrà sin dall’inizio. Ma questo non rende meno dolorosa e angosciante – ma anche liberatoria – la definitiva caduta delle illusioni.

Share This:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Cultura a Colori