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La bisbetica domata: una rilettura in bilico tra risate e profonda amarezza

Nell’attesa dell’appuntamento finale – toccherà a Costellazioni – in programma domani, domenica 23 luglio, vi raccontiamo lo scorso, intenso, appuntamento con il teatro.


La bisbetica domata rappresenta, infatti, il terzo appuntamento sold out svoltosi alle Terme Stufe di Nerone nell’ambito della rassegna Teatro alla Deriva, ossia il teatro sulla zattera, voluta fortemente dalla famiglia Colutta e diretta per l’undicesimo anno – su dodici totali – da Giovanni Meola.

In scena (in o. a.) Mario Autore, Franco Nappi, Vittorio Passaro, Simona Pipolo, Francesco Romano, Marco Serra e Chiara Vitiello.


Protagonista e regista di questa commedia è Chiara Vitiello. Al timone, assieme a lei, Francesco Antonio Nappi. Si tratta di un canto e di un controcanto.


Franco – ha ribadito la Vitiello – è stato il mio principio di realtà, mi ha aiutata a mantenere la concretezza e i piedi ben piantati per terra. Mi ha supportata nel non cedere a una lettura dell’opera shakespeariana plasmata secondo le mie necessità emotive e le mie aspettative“.


Secondo quanto ribadiscono i registi, la trama de La bisbetica domata vede al centro della narrazione un gioco di potere. Caterina, figlia indomita di Battista, è vittima di una pletora di personaggi maschili che si prendono gioco di lei e la espongono al pubblico ludibrio.


La commedia shakespeariana può sembrare misogina, ma una lettura più attenta del suo pensiero caratterizzante ci rivela che lo scrittore e drammaturgo è in realtà dalla parte delle donne, interdette dal palco e da una serie di agoni sociali, attraverso un sistema cristallizzato di regole.

Il drammaturgo seicentesco, neanche tanto velatamente, riconosce il valore delle donne, ma sa anche che chi si ribella è destinata, nella migliore delle ipotesi, alla solitudine e, nella peggiore, alla morte sociale e fisica, come succede per esempio a Giulietta e alla stessa Caterina.


Nel nostro adattamento – continua la regista – si alternano una risata e uno schiaffo. Il sorriso, che a tratti diventa riso, mantiene il registro del grottesco e della farsa, ma a un certo punto il destino tragico di Caterina appare evidente. Alcune scene, che fino ad un certo momento muovono il riso, trasportate nel contesto attuale e rilette da una sensibilità contemporanea non possono apparire che violente e scioccanti“.


il dramma di Caterina è quello di voler essere libera e di non riuscire, suo malgrado, a conformarsi alle regole del suo tempo, che in qualche modo le renderebbero la vita più semplice e innanzitutto le permetterebbero di guadagnare con facilità, come accade alla sorella Bianca, l’approvazione del padre.

Invece lei è un personaggio scomodo e svalutato, che tutti sperano venga piegato, tanto è vero che nella scena finale nessuno la difende. Tutti quanti ridono di lei, sono lieti della sua frustrazione e della sua umiliazione, che si trasforma in resa.

Gioiscono persino della lesione della sua dignità e scommettono sul suo crollo emotivo come si fa con la prestazione di un cavallo. La commedia è trasposta negli anni ’50, perché sono gli anni del boom economico in cui si era particolarmente attenti ad accumulare ricchezza e in cui, tra gli altri aspetti, la figura della donna è ancora votata al matrimonio, alla maternità e alla sudditanza apparente alla figura maschile.

L’alter ego di Caterina è Petruccio. Entrambi sono imprigionati in un gioco al massacro. Potrebbero amarsi perché in realtà si piacciono, e in parte sono simili, o meglio complementari. Tutti e due sono allergici alle regole e scardinano le apparenze – rimanendo fedeli a sè stessi nonostante non sia la scelta di facciata piú comoda, al contrario di quello che accade con Bianca e con la vedova.


Bianca mostra sin dall’inizio – chiarisce la regista/attrice – la sua vera natura ambiziosa e calcolatrice, che si slantetizza del tutto con la certezza del matrimonio, che rappresenta per lei un momento di rivalsa e di posizione acquisita, attraverso la firma di un contratto definitivo che la tutela. Per lui, invece, è un capestro”.


Caterina e Petruccio costituiscono in fondo due marginali, due “diversi”, che potrebbero salvarsi a vicenda, ma che invece rimangono vittima dei propri lati oscuri o piu estremi. Lui, in particolare, è schiavo del suo egocentrismo che lo porta a voler essere signore e padrone, a costo di fare a pezzi la volontà e la dignità di lei.


Noi – evidenzia Chiara – ci tenevamo a rimanere equidistanti, a non parteggiare per nessuno, evitando derive sia femministe sia maschiliste“.


Molta della lettura in controluce, quindi, è affidata al vissuto e al background emotivo del pubblico stesso, che si tyrova coinvplto in dinamiche di rispecchianenti e risonanze interiori.


Per me, per esempio, si può intravedere nel personaggio di Petruccio il profilo di un narcista patologico ante litteram, che sfrutta economicamente, ma non solo, la sua vittima, la sua donna complementare, ne oltraggia la dignità e addirittura la spinge alla disperazione, perchè la sua autostima traballante ne esce duramente provata. Le di lui angherie fisiche e psicologiche la spingono sull’orlo del baratro: lei arriva a mettere in dubbio le sue stesse percezioni e a diffidare di sè stessa.


Il finale non appare risolutivo. Non fa chiarezza. Non fuga i dubbi. Rimane aperto ad almeno tre possibilità. Ma sta al pubblico trovare le varie interpretazioni possibili. Quel che è certo è che si tratti di un rapporto malato che alimenta un gioco al massacro, dai risvolti potenzialmente drammatici.


In questo spettacolo, un ruolo importantissimo è svolto dalla musica, rogorosamente degli anni ’50, che in alcune fasi sottolinea l’atmosfera, confermando quanto sta avvenendo sulla scena, ma in altre, in particolare nel momento dell’apertura della chiusura della scena, si muove sulla scia dell’ironia e rimane volutamente ambigua.


C’e poi il linguaggio: molto fedele all’originale quando attraversa il rapporto tra i due, che appaiono quasi isolati da ció che li circonda. Contemporaneo, invece, nei duetti comici, con alcune parti riscritte e inserite ad hoc.


Spetta ai comici – rimarca Chiara – coinvolgere lo spettatore e trasportarlo nello spettacolo, proiettandolo sul palco, intessendo un dialogo ridanciano con lui e con la location“.

Un plauso agli attori che hanno saputo mantenere vivo il ritmo, alternando momenti di ilarità e intensamente drammatici, spesso accostati in maniera repentina, con assoluta credibilità, chiamando il pubblico a testimone del destino dei protagonisti e rendendo anche la location centrale.

Particolarmente coraggiosa la scelta di fondo che ha reso concreta, in prima battuta, la possibilità di risultare impopolari, dato che sono stati toccati temi suscettibili di diverse interpretazioni.

Interpretazioni tutte legittime, capaci di richiamare i vissuti del pubblico e i demoni interni ed esterni, sotto forma di vincoli, paure, episodi traumatici, stereotipi e pregiudizi. Una sfida vinta grazie alla sensibilità complementare del duo registico, che ha camminato in punta di piedi nella vita dei protagonisti, cosí come sono stati originariamente dall’autore, non cedendo alla tentazione di stravolgerne le dinamiche interpersonali e la caratterizzazione. A farla da padrone, nel bene e nel male, è lo sguardo del pubblico.

Ph. Davide Russo

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