HOMETEATRO

Le cinque rose di Jennifer: al Sannazaro rivive l’opera di Ruccello

Le cinque rose di Jennifer, del geniale Annibale Ruccello, scomparso prematuramente e tragicamente, torna in scena nuovamente in questo weekend,  da stasera venerdì 15  a domenica 17 marzo al teatro Sannazaro.
Sul palco Geppy Gleijeses, che ne cura anche la regia, e Lorenzo Gleijeses. A coadiuvarli Nunzia Schiano (voce della radio), Gino Curcione (voce di Sonia), Mimmo Mignemi (voce di Annunziata), Myriam Lattanzio (voce del giornale radio). Le scene sono di Paolo Calafiore. I costumi di Ludovica Pagano Leonetti. Light designer: Luigi Ascione. Colonna sonora a cura di Matteo D’amico. Aiuto regia Roberta Lucca. Trucchi di Cris Baron. Le parrucche sono fornite da Francesco Pogoretti. La produzione è a cura di Gitiesse Artisti Riuniti.
Si tratta, a tutti gli effetti, di un dramma della solitudine, dell’abbandono da parte della società, della marginalità e dell’emarginazione.
Jennifer, infatti, è un femminiello che vive nel quartiere dei travestiti di Napoli e aspetta la chiamata di Franco, un uomo che lei dice essere follemente innamorato di lei e prossimo a chiederle di sposarla. Però, nel frattempo, le arrivano una serie di chiamate incrociate causate da un disservizio telefonico.
Sono telefonate dirette ad altri residenti della zona, cui lei risponde, a volte apparentemente con fastidio. In realtà si intuisce, sin da subito, che quelle voci “la cullano”, andando a a spezzare una routine pregna di mestizia, fatta di solitudine.
Oltre che con queste chiamate, Jennifer riempie la sua routine solitaria con le canzoni trasmesse da Radio Cuore. Melodie di grandi interpreti femminili, come Mina, Ornella Vanoni e Patty Pravo. Figure muliebri di successo, icone della femminilità, con cui lei si identifica.
All’improvviso, in questa solitudine irrompe un altro femminiello, Anna, che dice di essere venuta lì nella speranza che sulla linea telefonica di Jennifer siano state deviate alcune chiamate che lei attende ormai da tre mesi, in risposta a un annuncio che ha fatto pubblicare in una rubrica di cuori solitari.
Anna palesa sin dalle prime battute di essere un personaggio profondamente sofferente, segnato dalla solitudine e dall’abuso, che l’hanno condotta a una sorta di dissociazione psicologica, che si evince dal suo sguardo evitante, spiritato e allucinato.
I due attori incarnano un dolore vivido e quotidiano, che risucchia gli astanti, e danno luogo a un’interpretazione molto intensa, caratterizzata da un ritmo incalzante e adrenalinico di veridicità e di autenticità. Le narici degli spettatori vengono solleticate dal profumo del caffè che sale ribollente e che Jennifer prepara per intrattenere la sua ospite. I mobili – la radio, il paravento, la specchiera, il tavolo – ci raccontano di una condizione esistenziale.
La vediamo mangiare, a tratti svogliatamente, una parmigiana di melanzane e mordere un pezzo di pane, mentre beve un bicchiere di vino vermiglio, gustando con lei quei sapori e quello consistenze.
Sembra quasi di poter sentire, man mano, salire i vari profumi in questo appartamento, ravvivato solo dalla presenza di un mazzo di rose rosse.
Innanzitutto, siamo colpiti dalla palese alternanza tra scena e retroscena nella vita di questo personaggio: quando Jennifer commenta le telefonate dei radioascoltatori è molto cruda, brusca, a tratti volgare, mentre quando risponde al telefono e parla con interlocutori a lei graditi – i quali rappresentano il suo palcoscenico – cerca di apparire forbita. Diventa, a suo modo, costruita e artefatta.
Ridiamo quando diviene sboccata e trepidiamo ogni volta che il telefono squilla. Per lei lasciamo accesa una flebile fiammella di speranza, quasi fossimo noi a dividerci tra noia, fastidio e attesa.
Ad Anna, questo dolente personaggio racconterà di una vita immaginata e sognata, in cui è stata sposata, ha dei figli ormai lontani, passa le sue vacanze su una spiaggia, dove ha avuto occasione di incontrare Mina.
Anna, invece, confessa gli abusi subiti e il suo rifugiarsi nella fede, in Geova, e nella compagnia di una gatta, Rusinella, che lei tratta, in maniera morbosamente affettuosa, come una figlia.
Dalla radio, intanto, arrivano anche le notizie poco rassicuranti circa gli omicidi efferati perpetrati da un serial killer, che sembra aver preso di mira proprio i travestiti.
Però, Jennifer non ne sembra né preoccupata né turbata. Il finale di quest’opera intensa, che fa ridere e piangere insieme, è in qualche modo aperto.
Da una parte, ci chiediamo se Anna esista davvero o sia, in realtà, una proiezione della mente allucinata e dell’anima ferita di Jennifer, che cerca un confronto  e un conforto, o se rappresenti l’esplicitazione della parte più autentica di sé stessa, di colei che ha subiti svariati abusi e che è talmente tanto sola da legarsi a una gatta, finendo, però, per ucciderla, perché attribuisce alla sua presenza ingombrante la causa del suo fallimento sentimentale e, quindi, della sua solitudine. Sembrerebbe proprio lei il serial killer.
Dall’altra potrebbe essere una delle potenziali vittime, innanzitutto della non accettazione verso sé stessa.
Parrebbe che Jennifer sia al centro di un conflitto interiore che la dilania: forse vuole continuare a perpetrare gli omicidi per liberare dal dolore e dal male di vivere altri esseri umani simili a lei. Oppure perché odia sé stessa e la sua natura, che rinnega con rabbia e improvvisa violenza. O  desidera emulare il serial killer per avere un momento di condivisione e di protagonismo, di centralità, rispetto alla sua abituale marginalità.
A tratti le istanze emotive dei due personaggi si sovrappongono e si confondono. Altre volte, appaiono opposte e complementari. Jennifer richiama l’altra all’equilibrio. Nel dissuaderla da gesti inconsulti mostra una pietas frammentata, un anelito di ravvedimento, finanche verso sè stessa.
Dopo il tragico epilogo, sentiamo squillare nuovamente il telefono e abbiamo il dubbio che finalmente Franco abbia chiamato ma che, purtroppo, sia arrivato troppo tardi. In precedenza, nel fatiscente monolocale ormai buio, Jennifer cerca disperatamente e a gran voce un’ultima possibilità di salvezza e di redenzione, attraverso un qualsiasi contatto umano.
Tenta disperatamente di opporsi alle forze negative, ai demoni, che emergono prepotentemente dal suo animo e infestano l’appartamento buio e solitario. Ma si ritrova sempre drammaticamente sola.
Quando anche il telefono – che era l’unico suo mezzo di conforto e di contatto con l’esterno – tace, risultando fuori uso, la scelta non può che essere definitiva. Anche nella scena finale respiriamo un pathos ispirato a un estremo realismo.
Infatti Jennifer, tolta la parrucca e con il trucco sciolto, getta definitivamente la maschera e abbandona qualsiasi tentativo di sopravvivenza, corrosa dalla disperazione e, forse, dal rimorso per i delitti perpetrati. Nel momento estremo, chiama sua madre e questo particolare ricorda, in maniera profondamente vera, la consapevolezza che nel dolore, fosse anche quando ci pungiamo un dito con uno spillo come dicevano le nostre nonne, e a maggior ragione sulla soglia della morte, invochiamo nostra madre quale tenera fonte di conforto e, per lei, l’unica che forse le abbia mai voluto davvero bene.

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