HOMETEATRO

Tre rotture: un’alternanza di riso e rabbia a delineare un inesorabile fallimento di coppia

 Giulia Piscitelli e Pietro Tammaro, con la regia di Mauro Palumbo, calcano le tavole del palcoscenico del teatro Serra per portare in scena Tre rotture fino a domani, domenica 21 aprile alle 18:00.

Il teatro Serra si conferma uno spazio aggregativo capace di essere un polmone pensante per il quartiere di Fuorigrotta e non solo, vettore di una programmazione teatrale di grandissima qualità.

Il futuro spettatore viene accolto da un brindisi in onore degli sposi a base di spumante, accompagnato dalla possibilità di mangiare alcuni confetti variopinti,  serviti in un cestino di vimini.

Questo antefatto prepara a quello che sarà, poi, il nucleo fondante dello spettacolo che fissa  tre fotogrammi,  tre momenti di ordinaria follia, della vita di una coppia perennemente in crisi.

 La sceneggiatura originale del drammaturgo francese Remi De Vos prevedeva di analizzare la storia di tre differenti coppie. Mauro Palumbo, nella sua drammaturgia, sceglie di trasformare questa trilogia in una fotografia di tre momenti temporalmente diversi della vita di una stessa coppia.

Io credo – racconta – che i personaggi cambino al pari delle persone.  Ecco perchè sono importanti le transizioni tra i vari quadri narrativi rappresentati dalla gravidanza, e quindi dalla genitorialità, e dal tradimento. In virtù dell’inattesa gravidanza questi individui decidono di rimanere coppia, nonostante i già evidenti episodi di violenza, che dovrebbero far scappare una donna a gambe legate e si condannano a un inevitabile fallimento”.

 I protagonisti – coppia quasi per caso, per colpa delle idealizzazioni prima e di conseguenze inaspettate poi –  non riescono, o non vogliono, evolvere e  rimangono cristallizzati in un modus operandi  sempre uguale a sè stesso che li imprigiona in un loop, caratterizzato dall’incapacità di crescere.

A mio parere –  evidenzia Pietro Tammaro, uno dei protagonisti –  la nota distintiva del mio personaggio è la codardia. Non riesce ad assumersi la responsabilità di un’autentica scelta. E’ terribilmente impaurito dall’idea di rimanere solo, tanto da affezionarsi in maniera smodata anche al suo cane, Ludmilla. Si tratta di un eterno bambino, che si crogiola nelle sue fragilità, che non sa lasciare nè accetta di essere lasciato, nonostante provi, in maniera abbastanza manifesta, noia e frustrazione verso la sua partner, che sfociano prima in rabbia e poi in violenza”.

Rifacendosi alle parole del regista, la coppia rimane vittima di un’ottica borghese, che deve mantenere intatte le apparenze, ma che nella sostanza combatte contro una reale  e crescente infelicità.

Rispetto alla sceneggiatura originale – continua Palumbo –   il secondo e il terzo quadro narrativo sono stati invertiti, in maniera tale da chiudere con la scena in cui la violenza raggiunge l’acme e deflagra fino a portare a un possibile femminicidio. Da quel momento per la coppia non può che esserci la separazione definitiva. Inoltre, volevamo condividere con lo spettatore un finale aperto“.

A regalare emozioni agli spettatori, in un’alternanza di registri stilistici , c’è anche la protagonista femminile, Giulia Piscitelli.

La donna che incarno – ribadisce –  può sembrare la più cattiva tra i due, perché è molto franca, diretta e onesta. Sa dove colpire duro e mira ai punti più deboli. E’ mentale e sottile, quasi chirurgica, nelle sue accuse. Lui, in realtà, è quello più subdolo e feroce, perchè non sa far altro che costringerla a ingurgitare la pappa del cane o tenerla legata, esperendo la violenza fisica. Non sa dialogare in altro modo. Proprio perchè è un codardo, non credo che, una volta che lei riesce a rivelare le sue reali intenzioni a terzi, compirà davvero gesti insani. Il mio, invece, è un personaggio combattivo, sia nel cercare di tenere unita questa famiglia, fino ai limiti dell’umano, sia, in un secondo momento, nel tentare di uscire ostinatamente da questa situazione. E’ disposta a tutto pur di raggiungere il suo obiettivo nei tre quadri narrativi, che è quello di affrancarsi dalla di lui presenza. Io sono solita calarmi nella situazione e nel personaggio totalmente. Cerco sempre delle connessioni emotive. In questo caso, mi sono ispirata a situazioni vicino a me, reali e concrete, in cui le donne cercano di tenere unita la propria famiglia con grande ostinazione. Mi sono rifatta anche a mie esperienze personali, perchè, in alcune fasi della vita, ho cercato di tenere in piedi relazioni improbabili, se viste dall’esterno, pur di rimanere fedele alle mie emozioni“.

 A farle eco Tammaro: ” Il mio non è un personaggio positivo, ma sono riuscito a mettermi nei suoi panni, e qui parlo in quanto testimone del personaggio stesso, perchè in lui ho riconosciuto alcune fragilità di particolari fasi della mia stessa esistenza, caratterizzate dal conflitto tra la paura di legarsi e quella di rimanere soli. Al contempo, riesco a rivolgergli uno sguardo distaccato, che mi consente di interpretarlo, nonostante tutto, con leggerezza e ironia, grazie a un mio percorso di evoluzione e di presa di coscienza personale , che lo rende estraneo a quello che sono oggi“.

Gli attori, guidati con sapienza dal regista, danno vita a uno spettacolo intenso, dove si alternano freneticamente vari registri stilistici e narrativi. I toni sono tesi, grottesci e surreali e richiamano il black humor della stand up comedy politicamente scorretta e “cattiva”, che vuole far ridere ricorrendo al sadismo. Ma al contempo non potrebbe essere più tristemente e amaramente attuale, nel momento in cui richiama fatti di cronaca ben noti.

Non volevamo trattare questi temi in maniera pesante – spiega Tammaro – bensì con leggezza“. Quella leggerezza di calviniana memoria che non è superficialità, bensì capacità di planare sulle cose dall’alto e nulla toglie al pathos e alla violenza che drammaticamente si respira.

 “Inizialmente – dice Giulia – ci siamo concentrati sul memorizzare le battute, perché è un dialogo molto complesso,  costituito da una serie di ripetizioni che differiscono per un particolare, ma se quel particolare venisse omesso si perderebbe il senso di tutto. Quindi siamo stati totalmente assorbiti da questo lavoro di memorizzazione. In un secondo momento,  abbiamo cominciato a vivere sulla nostra pelle queste situazioni e le persone e i personaggi si sono fusi. Molte volte ci siamo resi conto che il modo di rispondere del personaggio era uguale a come avremmo risposto noi come persone in specifici momenti. Per esempio, nella scena in cui lei viene legata, ho voluto che il mio personaggio non risultasse una vittima inerme, ma mantenesse una certa aggressività. Lei, in quel momento, gli rivela una serie di amare verità e la situazione, paradossalmente, si ribalta. E’ lui, per la sua molteplice mediocrità, a divenire vittima della situazione. Ho voluto lanciare un messaggio ben preciso alle donne“.

 Di fronte all’incapacità di assumersi fino in fondo la responsabilità di porre la parola fine a un rapporto logoro e svuotato di senso da molto tempo, i personaggi, a mio parere, spostano la colpa, di volta in volta, su un elemento esterno: prima è la cagna, poi è il bambino – percepito e descritto come ingestibile perchè violento, irascibile e fuori controllo, forse per l’incapacità dei suoi genitori di riconoscersi come tali – che viene ritenuto responsabile della crisi di coppia e dell’impossibilità persino di vivere una scappatoia in qualità di improvvisati amanti. Nel terzo quadro narrativo  l’elemento di disturbo è l’amante, da cui lui si lascia scegliere o che sceglie, spinto,  come ribadisce Pietro, dall’estrema noia che lo attanaglia e che lo fa scivolare in una relazione omosessuale, senza però spingerlo a troncare la relazione con la moglie per paura dell’abbandono.

Gli attori riescono a passare rapidamente dal riso alla rabbia, rimanendo concentrati nonostante l’osmosi con il pubblico, di cui percepiscono il respiro e gli umori, data la specifica morfologia di questo teatro.

Il pubblico ride, spesso e di gusto: un riso amaro, apotropaico e catartico insieme, perchè questo è, a tutti gli effetti, un dramma quotidiano  di fronte al quale in parte si rimane increduli: in parte si sente il bisogno, a volte fuori luogo, di sdrammatizzare e di ridurne il pathos;  altre volte si spera, disperatamente, che rimanga estraneo alle nostre vite.

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