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Le Madri del Museo Campano di Capua: protettrici dell’aurora

Questo articolo è anche un ringraziamento e un tributo a Gianni Sallustro e Nicla Tirozzi che attraverso lo spettacolo Mater Camorra  mi hanno fatto conoscere la figura e il culto delle Matres Matutae, dee protettrici dell’aurora e, quindi, delle nascite.
 

Ne hanno posizionato una riproduzione sulle quattro facce del carro che Anna ‘a Squarciona trascina, strenuamente “attaccata” alla sua “roba”, ai suoi ricordi, alle sue paure, nascosti dal suo fare e dal suo dire provocatori e dell’atteggiamento di sfida impavida.
 
Dato che oggi si vestiranno a festa i carri allegorici, ne prendo le mosse per  parlarvi, a partire da questo carro, di un culto e delle sue ispiratrici.
 
Attualmente le matres trovano il loro locus presso il Museo Campano di Capua – che fu a rischio di chiusura nel 2017.
 
Quindi il Tin, Teatro Instabile di Napoli, si conferma disvelatore ed attrattore di bellezza in maniera diretta e indiretta.
 
Le Matres Matutae sono le madri per eccellenza, custodite presso un bosco sacro nella Capua antica, di cui oggi non abbiamo più traccia.
 
Si tratta, secondo quanto ci spiegano gli addetti ai lavori, della cosiddetta architettura invisibile, cioè di un tempio che dall’esterno non era assolutamente né visibile né intuibile come presenza.
 
Qui si celebrava il culto, appunto, delle dee protettrici dell’alba: vi dimorava una Dea,  cui le donne, che avevano difficoltà ad avere un figlio, si rivolgevano per chiederle aiuto e protezione, data anche la forte mortalità infantile dell’epoca.
 
In seguito, le dedicavano delle statue votive come forma di ringraziamento.
 
Un culto simile a quello che oggi ritroviamo nei santuari cattolici con gli ex voto, per esempio a forma di gamba o di cuore, a indicare la parte del corpo guarita miracolosamente, oppure le scarpettine o la cuffietta del bambino, una sorta di ringraziamento e di riprova per la grazia ricevuta.
 
 
Come sono state preservate
 
Con l’avvento di Cesare, il tempio fu dismesso. Le statue – essendo sacre – non poterono essere distrutte e così furono accantonate in un pozzo.
 
Fortuna volle che venne una forte pioggia e portò con sè una colata di fango che andò letteralmente a sigillare la bocca del pozzo, preservandone il prezioso contenuto.
 
Unico effetto collaterale: l’umidità ha fatto sì che lo strato di colore che ricopriva le statue si scollasse. Ne resta appena qualche traccia: un lieve residuo rosa pallido su una guancia o un ricciolo di colore rosso scuro, quasi mattone, che orna le vesti.
 
Prima di passare il colore, visto che il tufo è un materiale poroso, veniva impermeabilizzato con uno strato di gesso e colla e anche di questa colorazione resta qualche lieve traccia lattiginosa sulle statue.
 
 
Le dimensioni
 
I soggetti tufacei potevano essere di diversa grandezza: in un primo tempo si riteneva che tanto più grande era la statua maggiore fosse l’importanza  e la potenza della famiglia donante. Poi si è compreso che in realtà i familiari a volte preferivano donare una statua di dimensioni più contenute, onde poter diversificare le loro offerte, per esempio offrendo anche un altare ad Apollo.
 
La dea si riconosce perché non ha un figlio in braccio, secondo quanto riferiscono gli archeologi, ma reca tra le mani due elementi simbolici: la colomba, simbolo di purezza, da un lato, e il melograno dall’altro. Il melograno è simbolo di abbondanza, quindi di fecondità, ma rappresenta anche il legame tra il regno dei vivi e quello dei morti, perché è considerato il cibo dei defunti.
 
 
Un ringraziamento per grazia ricevuta 
 
  Si tratta di una sorta di tributo postumo per aver permesso alla donna di essere feconda: di solito la madre reca in braccio un solo  figlio o un numero di figli pari a quanti ne è riuscita a generare durante il periodo fertile, fino a  un massimo di 12 .
 
Nelle statue di datazione più recente, il bambino è in piedi accanto al soglio materno, ad indicare il fatto che sia sopravvissuto alla forte comorbilità infantile o che sia giunta l’età di un passaggio di consegne tra la madre e il padre, che da allora in poi si occuperà della sua educazione.
I neonati, invece, sono avvolti nelle fasce di lino, che lasciano libero solo il volto, così strette da inibire o comunque da ostacolare, in seguito, la possibilità di camminare, per una sorta di atrofia degli arti.
 
 
Un nobile legame di sangue e di fratellanza acquisito
 
 
Un numero selezionato di schiavi o di servi veniva allatato dalle nobildonne.
 
Infatti, sarebbero stati loro, in seguto, a crescere i bambini della domina.
 
 In questo modo si cercava di creare un legame di vicinanza emotiva ab origine, che li avrebbe maggiormente predisposti alla cura e all’amorevolezza, facilitate dalla trasmissione, attraverso il latte, del sangue nobile, secondo la complementarietà delle virtù tipica della cultura greca: kalòs kai agathos, cioè ciò che è bello (e nobile) e anche eticamente buono.
 
 
Il trono
 
Quello che sembra essere un trono, su cui le madri sono sedute – quasi un riconoscimento e un omaggio alla sacralità della nascita e della matrernità – sarebbe in realtà una sedia del parto. La stessa su cui partorì, costretta a essere esposta in piazza sotto un tendone da campo,  la madre di Federico II di Svevia, per dimostrare al popolo la veridicità della sua gravidanza e la sua buona fede. La stessa sedia dove si siedono le devote a S. Maria Francesca per propiziare la fecondità, grazie a un’invocazione alla santa.
 
 
Un calendario lunare
 
Una delle matres rappresenta un calendario lunare, con i dieci figli/mesi, cinque invernali e cinque estivi,
In cinque figli  il volto appare preservato. Essi guardano verso la terra prospera e feconda di messi e fioritura. Gli altri cinque hanno il volto – purtroppo non conservato – rivolto verso l’alto, forse in attesa di una pioggia che dia sollievo alla terra sterile o, ancora, in contemplazione del volteggiare di una foglia caduta dagli alberi ormai spogli.
 
Ph. Pino De Pascale

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