HOMETEATRO

Ligheia: la sirena Favola d’amore, chiude in bellezza la rassegna al Darwin-Dohrn

La rassegna di racconti musicali In Altro mare. Incontri con le creature degli abissi, con la direzione artistica di Rosalba Di Girolamo, realizzata in collaborazione con Baba Yaga Teatro, si è conclusa in maniera suggestiva con la rappresentazione dedicata alla Sirena Ligheia e alla sua favola d’amore. In precedenza vi era stato l’incontro con la temibile Moby Dick e si era scesi Ventimila leghe sotto i mari.


A fare da cornice a questa narrazione amorosa, per voce e chitarra classica, gli spazi del museo Darwin-Dohrn che, come spiega la direttrice Fulvia Battiloro , è stato oggetto di un’operazione di restyling: le varie sezioni sono state risistemate seguendo l’impianto e la disposizione tipici di una chiesa. Un reliquiario – una teca di vetro che contiene vari mirabilia – ci racconta la vita in fondo al mare. A seguire una serie di opere d’arte e una deposizione.
“In questo luogo di scienza e sperimentazione – evidenzia – vogliamo ricordare tutto ciò che viene dalle profondità degli abissi. Dal mare arriva la vita con le sue evoluzioni. È un luogo aperto non soltanto ai convegni scientifici, ma anche a una serie di altri eventi culturali“.
La storia narrata, che viene affidata alla voce potente e mutevole, al timbro, alle espressioni, alla prossemica, all’intensità dei vari registri stilistici adottati e alle emozioni di Paolo Cresta, è quella del senatore Rosario La Ciura, un esperto ellenista ormai settantacinquenne – un po’ burbero e riservato, apparentemente rinchiuso nella torre d’avorio del suo sapere – e della sua strana amicizia con il giovane giornalista Paolo Corbara di Salina.
Lighea nasce dalle parole intrise di nostalgia, sensualità e voluttà, a tratti crude, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che descrivono un mondo antico che va scomparendo. Angoli di Sicilia ancora vergini e incontaminati, che resistono all’assalto vorace di un processo di urbanizzazione e imborghesimento che rende tutto finto, artefatto, rozzo e mediocre, involgarendolo e distruggendolo.
I due si incontrano in un luogo infernale, popolato da creature che assomigliano a larve, a dei non morti o che comunque stanno aspettando la morte, perché probabilmente non hanno mai vissuto davvero. Mostrano un atteggiamento di sostanziale noia e di apatia verso la vita. Sasà La Ciura incontra il giovane Paolo e inizialmente lo canzona, ma alla fine il suo essere un bravo ragazzo, nonchè un suo conterraneo, riesce a penetrare nel gelo e nell’apparente distacco dell’anziano che via via si abbandona, sul filo della nostalgia, a una serie di confidenze.
Nella sua vita non ha mai avuto una donna, perché in gioventù ha incontrato un essere immortale. Da una parte quest’ultimo era poetico, lieve ingenuo. Dall’altra, aveva tutta la sfrontatezza, l’animalità, l’istintualità di una forma di vita priva di sovrastrutture culturali e di costrizioni sociali. Un essere divino, ma selvaggio, che vive in perfetta simbiosi con la natura. Si tratta della sirena Lighea, figlia di Calliope. Cristallizzata, come sembianze, all’età dell’adolescenza, è in realtà un essere millenario.
Un rapito, e quasi estatico, La Ciura la descrive come un essere puro, poetico, eppure sfrontato e lascivo. Ha avuto diversi amanti – marinai, viaggiatori, a volte naufraghi – a cui ha reso più lieve il momento estremo del trapasso, attraverso un amplesso consolatorio.
Le due creature si riconoscono sin da subito simili perché parlano la stessa lingua – il greco antico – e, al contempo, si sentono estranee al mondo che le circonda.
Così si sviluppa un sentimento di appartenenza, prima, e di amore poi, fino all’inevitabile distacco.
Ma la sirena fa una promessa all’uomo: quando lui si sentirà pronto, lei lo porterà con sé negli abissi, regalandogli l’immortalità. Dopo una vita di attesa e di rimandi, in cui l’uomo si tiene lontano dal richiamo del mare, il momento arriva. L’anziano studioso affida al giovane Corbara, che ha la stessa età di quando lui incontrò Lighea, il suo testamento spirituale. Purtroppo, l’amaro finale confermerà che il mondo circostante è davvero mediocre. Infatti, approfittando dell’assenza del giovane, durante la guerra, un gruppo di mercenari riduce a striscioline e brucia le fotografie che riproducono i capolavori greci, mentre la sua preziosa collezione di libri donata all’università – a coloro che teoricamente sarebbero dovuti essere custodi della cultura e della conoscenza – verrà lasciata marcire e imputridire nei sotterranei dello stabile.
Paolo Cresta riesce a dare una carnalità multiforme e un’anima profonda alle parole di Giuseppe Tommasi di Lampedusa, che descrive nostalgicamente un’isola che difende strenuamente gli angoli di natura, ma anche un modus vivendi antico che sopravvive in pochi sperduti angoli che si sottraggono con fatica alle brutture di un feroce processo di modernizzazione con tutte le sue miserie, rappresentate, per esempio, dall’asfalto che si discioglie sotto al sole rovente e libera i suoi vapori mefitici ed esiziali oppure dalla sveglia scandita dallo sferragliare dei tubi di scarico.
Questa narrazione è pervasa da una grandissima sensualità. Quando vengono descritti i ricci di mare, spaccati per suggerne l’interno succoso e sanguinolento, la cui forma richiama le pudenda femminili, c’è voluttà ed erotismo. Paolo Cresta è affiancato da Carlo Lomanto – la cui chitarra classica sprigiona una musica lieve che spinge ad affondare le mani e il cuore in questo ricordo condiviso. Gli spettatori vengono letteralmente risucchiati nelle suggestioni dell’atmosfera creata. Dalla magia dell’incontro con un essere millenario, che morde la vita così come addenta voluttuosa e crudele un pesce argentato, mentre ride divertita. La musica accompagna il racconto in maniera partecipata, andandosi a fondere con esso in maniera naturale, spontanea e simbiotica… Facendo autenticamente squadra si va sempre più lontano.

Ph. Pino De Pascale

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